Politica senza qualità
Di Carlo Corbinelli
31 agosto 2022
Non sarà il nadir della Repubblica, che dal 1946 in avanti ha certamente vissuto momenti fortemente drammatici: basta soltanto ricordare i ripetuti ed efferati attacchi eversivi del terrorismo e della criminalità organizzata. Ma l’odierno frangente elettorale fa risaltare la scadente qualità della politica, che pare scesa nella Fossa delle Marianne; con un pregiudizio, potenzialmente esiziale per la solidità della compagine sociale, sia in termini di rappresentatività del corpo elettorale sia quanto all’attitudine rispetto alle complessità con cui è ineludibile misurarsi. Per avvalorare l’affermazione basta considerare solo pochi aspetti della crisi che affligge il sistema politico.
In primis, i parlamentari non sono eletti, ma selezionati senza alcuna possibile incidenza da parte del cittadino. Grazie a processi elettorali escogitati da un legislatore compiacente, alle oligarchie che controllano il residuo dei partiti è permesso di dare spazio solo a figure marginali, per lo più soppesate in relazione alla loro fedeltà personale verso il leader. L’elettore è chiamato solo a ratificare, peraltro senza garanzia alcuna che programmi e patti su cui è stato chiesto il voto siano di seguito rispettati.
Quanto poi alla collocazione internazionale del Paese, vasti settori della classe politica sembrano ignorare, o volutamente occultare, che l’appartenenza al mondo libero è stato il fattore decisivo per il progresso e la prosperità raggiunte nel periodo repubblicano. Dalle ceneri di un confronto comunque superficiale affiorano difatti perduranti propensioni, se non intelligenze, per il sistema capital-leninista di Pechino, espressioni del quale hanno in anni recenti potuto agevolmente appropriarsi di parte importante di un sistema produttivo pregevole, che milioni di famiglie di Italiani, tra imprenditori e lavoratori, avevano nel tempo costruito con acume e con fatica. Per un altro verso prendono campo velleità autarchiche, evidentemente nell’ignoranza che l’Italia è un Paese senza materie prime e la cui ricchezza poggia sull’altissima capacità di trasformazione delle imprese e nella diversificazione degli approvvigionamenti, soprattutto energetici, cosicché è ineludibile la sua collocazione nell’area del libero scambio.
Infine non può che preoccupare l’incremento di orientamenti in qualche modo autoritari, taluni ancorati a nostalgie per costruzioni ideologiche ormai in macerie e con sole prospettive sudamericane; altri ammiccanti a forme di governo più decisioniste, ma in chiaro difetto di democrazia. Tanto che viene da chiedersi se la politica non debba essere il risultato di una cultura comunque raffinata o se per governare un Paese non sia invece più utile una sorta di culturismo politico.
Tre temi esemplari, dunque, per rappresentare la situazione attuale. Ma raggiungeremmo analoghe conclusioni se volessimo parlare di lavoro, sanità, sicurezza, scuola. Di certo non è il caso di aggredire la politica con l’antipolitica che, oltre a sostanziare una reazione irrazionale e improduttiva, è anche una copertura assicurativa, se non un’abile autotutela per chi ora occupa posizioni dominanti. È invece bene rammentare che una buona direzione della cosa comune è indispensabile. La politica è una competenza civilmente nobile, ovvero “la forma più alta di carità, seconda sola alla carità religiosa verso Dio” (Pio XI).
Come agire allora? Il politologo Sergio Fabbrini ha di recente correttamente sostenuto su “Il Riformista” che “quelle regole elettorali e quel sistema istituzionale dovrebbero essere messi in discussione dalla rete di coloro che stanno tra gli eletti e gli elettori”. In sostanza “il fiato sul collo dovrebbe essere quello dei giornalisti della stampa e della televisione, dei leader sindacali e imprenditoriali, di quella società organizzata che non appartiene al mondo degli eletti ma è molto più responsabilizzata rispetto al mondo degli elettori”. Purtroppo lo stesso Fabbrini è anche consapevole che “siamo di fronte ad una dequalificazione, squalificazione, di questa rete intermedia. I vari rappresentanti degli interessi pensano ad entrare nel mondo degli eletti e non a difendere l’agenda nazionale del Paese”.
Si tratta pertanto in primo luogo di mitigare e possibilmente abbattere queste biasimevoli commistioni. I cosiddetti corpi intermedi, cui lo stesso Sturzo attribuiva importanza decisiva per realizzare una rappresentanza politica coerente con le aspettative popolari, dovrebbero tornare a svolgere il loro indispensabile compito di pungolo e di sollecitazione nei confronti della politica.
Ma il dato inconfutabilmente e generalmente rilevante è il diffuso deficit di cultura politica, che impedisce al Paese di annoverare personale qualificato, in grado di reggere con competenza e autonomia un qualsiasi ruolo istituzionale. Se nessuno può ragionevolmente pensare che i messaggi della Ferragni possano essere di colpo sostituiti da lezioni su Einaudi o su Gramsci, sarebbe comunque il caso di riprendere la formazione seria di una classe dirigente, che non abbia come fonti soltanto il web, come orientamento costante i sondaggi e come obiettivo il solo successo personale. Si tratterebbe di riscoprire e nuovamente valorizzare le grandi correnti di pensiero che hanno reso possibile la crescita del Paese, magari aggiornandole per renderle nuovamente disponibili a fronte delle difficili prove che ogni giorno si profilano. Una sfida troppo gravosa? Eppure non è più rinviabile, salvo non si voglia definitivamente accettare quanto Lorenzo Ornaghi prefigurava tempo addietro su “Il Foglio”, ovvero che il destino della politica sia quello di essere considerata “un’attività di second’ordine”.
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